FRONTIERS ROCK FESTIVAL
Day 1 – 28 APRILE 2018
Live Club (Trezzo
sull'Adda – MI)
Il pubblico del Frontiers
Rock Festival mi ricorda i gerarchi nazisti nel film “La caduta”:
tutti a far festa mentre le bombe stanno trasformando Berlino in un
parcheggio. E mentre il mondo musicale è ormai partito verso lidi
imperscrutabili, gli appassionati di HardRock/AOR si ritrovano a
Trezzo sull'Adda. Tutti conoscono tutti e incanutiscono insieme
gioiosamente, come gli alpini o i radioamatori.
Il tempo passato a farsi
foto è ben superiore a quello trascorso sotto il palco, la frase più
comune è “Li ho già visti nel 198...” e verso sera la caccia ad
un posto a sedere è degna di una gita dell'ospizio al museo. Ma è
proprio il genere che sta invecchiando (bene o male, dipende dai
punti di vista) e così il suo pubblico. Resta da sperare che la
scienza si sbrighi a creare parti umane intercambiabili, unica
soluzione per evitare che si proceda verso l'estinzione fisica dei
Rocker (musicisti e fans).
Comunque sia, anche
quest'anno solo una giornata del Festival per me. Vissuta al massimo,
almeno fino a quando le gambe hanno retto. Poi divano e borsa
dell'acqua calda. Che a far sociologia da ignoranti si sbaglia, ma
tanto non te ne rendi conto.
HELL IN THE CLUB.
Il fascino dell'autogrill
e dei provoloni al pepe mi impedisce di arrivare in tempo a vedere
gli HINTC. In molti non hanno apprezzato lo show, ma senza alcun
riferimento alla prestazione tecnica, alla presenza scenica e alle
canzoni. Evidentemente la band deve aver rubato le autoradio a parte
del pubblico. Oppure hanno molestato le fidanzate immaginarie di
molti presenti. Io me li ricordo bravetti, ma l'autoradio ce l'ho
ancora e la mia fidanzata esiste...
BIGFOOT.
Crassa ignoranza la mia,
che arrivo allo show senza sapere nulla su questi 5 inglesi. Possono
vantare una quantità di capelli collettiva imbarazzante, più di
Praying Mantis e MTB messi assieme. Hard Rock classico, col cantante
che ghigna come Jack Black (e mangia pure come lui, a occhio) e ogni
tanto azzecca il ritornello, ma poi si lanciano anche sul blues e
quando sento un po' di blues mi metto la retina per non perdere i
capelli e scappo fuori (dove è pieno di donne, giacché il blues è
uno dei massimi generi scacciafighe).
AMMUNITION.
Dalla Norvegia in una tempesta di sudore e problemi tecnici piombano
sul palco gli alfieri del rock sbarazzino e facilone. Il
bassista Lasse Kjus è il top dei top: praticamente un paracarro con
zazzera da denuncia e occhiali da carcerazione immediata... volevo
farci una foto, ci sono riuscito e ve la godete alla fine del report.
Il batterista Tore André Flo neanche l'ho visto, mentre il
tastierista Kjetil André Aamodt sembra un colletto bianco, ma ha il
pregio di sparare le basi con grazia e nonchalance.
Il chitarrista
Ole
Gunnar
Solskjær mi è parso troppo magrolino per reggere l'urto dei suoi
compagni. Ma la punta di diamante è il cantante Åge Sten Nilsen, un
mio eroe personale dai tempi dei Wig Wam: sudato fin dagli anni '90,
Nilsen oggi sembra Elvis a fine carriera con i capelli di Izzy
Stradlin. La voce c'è sempre e il carisma non è da meno, in più
suona pure la chitarra con risultati da immediata retrocessione al
primo anno di conservatorio (ovviamente questa la sparo senza sapere
niente di come si suona). Per me eroi veri, a testa alta mentre
infuria la tempesta dei suoni a vanvera.
PRAYING MANTIS.
Io lo so che quasi tutti
amano i Praying Mantis quando fanno i metallari con le cavalcate
stile Maiden e il chiomatissimo singer (eccezione meravigliosa in una
band che ha perso la lotta contro la calvizie da decenni) a ululare
alla luna. Io però li preferisco iper melodici e strappalacrime,
quando azzeccano tutti gli elementi di una canzone e consegnano a noi
piccoli gioielli di perfezione. In quei momenti si vola alto. Poi
svaccano con le peggiori camicie del Frontiers 2018. Ma sono inglesi,
le loro signore vanno all'ippodromo coi fagiani sul cappello...
MICHAEL THOMPSON BAND.
Il sound del capitalismo. Zero urgenza rock, zero spigoli, zero
ruvidità. Suoni perfettamente calibrati, melodie ariose e ricercate,
una cura per il singolo dettaglio che funziona solo se sei un
medio-alto borghese appagato che ama dedicare tempo e cura alle cose
che fa. Avessero l'orto, avrebbero i pomodori grossi come meloni. La
Weltanschauung
(e avanti di perle ai rockers...) dei MTB è yankee fino al midollo,
quella della classe media benestante che ha la piscina in giardino, i
figli al college, il cottage sul lago e qualche arma da fuoco nella
dispensa. A vederli sembrano una band da matrimoni (dicono il
cantante sia un leader del settore), poi sciorinano tutte le hit
clamorose dei due album e ti stendono con la qualità. I Rockers duri
e puri ovviamente se ne fregano e stanno fuori a farsi i selfie,
perdendosi il bassista Larry Antonino che è più anni '80 di
chiunque altro nel raggio di 10 km: avrebbe potuto essere il
protagonista di “Chips” o “Hazzard”, i riferimenti culturali
di tutto il blocco occidentale durante la Guerra Fredda. Giudizio
finale sul leader Michael Thompson: guitar work impeccabile, chioma
impressionante, attitudine rilassata da conto in banca a parecchie
cifre.
QUIET RIOT.
I QR sono stati al posto
giusto (USA) nel momento giusto (1983): si può dire siano rimasti
lì, in questo stallo temporale in cui la loro musica è rimasta
(quasi) sempre la stessa, mentre la band invecchiava e il pubblico se
ne fregava sempre di più. Chuck Wright è chiaramente indigente,
sennò a 60 anni non sarebbe in tour con i QR e avrebbe i fondi per
la chirurgia estetica: invece deve mettersi occhiali e cappello in un
Live Club al 110% di umidità e deve tenere la bocca a culo di
gallina per stirare le rughe. Poi al basso è fenomeno vero, ci
mancherebbe. Stessa cosa per Frankie Banali: tra barbaccia e parrucca
e occhiali da sole, il suo volto è occultato dal 1992 (anno in cui,
con un drumset di fustini e padelle, ha imposto a “The Crismon
Idol” dei WASP una confusione sonora che per fortuna non rende
l'album meno capolavoro). Comunque hanno portato a casa la pagnotta e
mi sarei stupito del contrario: i tre vecchiacci suonano dal 1871 e
il giovane Durbin ha la forza per trascinare un pubblico che ha l'età
media di suo padre.
STRYPER.
Gesù deve essere un po'
dalla loro parte, se gli Stryper sono ancora in giro a suonare
concerti belli e vigorosi, nonostante da studio siano coinvolgenti
come un'omelia al matrimonio del cugino che detesti. Comunque si
tengono bene, Michael Sweet ha ancora voce per ammonire i non
timorati di Dio e il nuovo bassista Perry Richardson sfoggia una
chioma in stile Versailles 1789. La scelta di meno classici e più
roba nuova lascia al pubblico parecchio tempo per servizi fotografici
artigianali all'esterno del locale o davanti al wc. Per punirmi del
mio ostinato rifiuto di partecipare alla pesca di beneficienza della
parrocchia, gli Stryper mi lanciano pure una Bibbia, che schivo
neanche fosse un cavolfiore marcio.
Poi una visione
illuminante: trattasi di una band di scismatici luterani invisi alle
gerarchie papali e qui in Italia i papisti è meglio tenerseli
buoni...
Per evitare la scomunica
di Papa Francesco scappo nella notte verso l'autostrada, anche perché
“highway and neon lights” è troppo Eighties. Ma tutti gli
autogrill sono pieni di ultrà che rientrano dai loro rituali
collettivi e la salvezza la raggiungeremo solo rientrando nella Madre
Terra Veneta, dove ogni campanile scatena faide secolari. Troppa vita
troppo in fretta, prima di scrivere questo report serviranno giorni
di severa e purificante agricoltura.
RINGRAZIAMENTI doverosi:
a Checco e Caio, che ne
sanno di calcio, bevono con stile e la musica la ascoltano;
a Lorenzo Vettorello e
Notturno Metal Radio Show, che cacciano i soldi per le trasferte e
pagano le parcelle degli avvocati;
a quelli che ho
incontrato e con cui ho fatto foto: sono diventato arrogante e
spocchioso a causa della subitanea popolarità e la mia famiglia
ringrazia;
alla Frontiers, che
organizza una cosa bella e giusta oltre ogni ragionevole dubbio.
Eccomi col bassista degli Ammunition: vogliategli bene come gliene voglio io.
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