giovedì 22 gennaio 2015

Panevin: rituali pagani di crapula nelle nebbie padane



“Panevin” è il falò dell'Epifania e qui in zona (in alto a destra nella cartina dell'Italia) è una tradizione così sentita che cominci a frequentarlo autonomamente se sei over 40 oppure sei nato in campagna e sei abituato a passare le giornate al bar coi vecchi.

Il più celebre in provincia di Treviso è quello di Arcade, ma è l'equivalente (per affluenza, prezzi e tipologia di umani) di una festa estiva al Faro di Jesolo. Evitato.
Ci sono quelli piccolissimi, praticamente degli incendi nei giardini privati, ma di solito devi essere imparentato coll'organizzatore per accedervi. Improponibili.
Non mancano quelli dei vari paesini: più piccolo è il paesino e più è facile ottenere cibo e brulè, ma è anche rischioso perché gli autoctoni si conoscono tra loro e lo straniero è guardato con sospetto. Bisognerebbe avere un agente sul posto, tuttavia quest'anno i miei scagnozzi hanno optato per darsi alla macchia.

La Soluzione è il Panevin di Camate (cercare su Google, compare una specie di Area 51).
Collocazione: campi. A ridosso di una cava.
Strade per arrivarci: 2, strette la scala del pollaio e costeggiate da fossi esalanti nebbia gelata.
Parcheggio: lungo la stradina, due ruote sulla carreggiata e due ruote nel fosso.
Affluenza della grandi occasioni, non faccio stime ma qualche centinaio di vecchi è garanzia della qualità dell'evento.
Tavolacci a ferro di cavallo per la distribuzione di cibarie (offerta libera), più pesca di beneficienza e cori popolari.
Falò di 25 metri con albero piantato in cima. Sconosciuta la provenienza della legna, ma per arrivare in loco foreste non ne ho viste: questi avranno disboscato tutto l'entroterra. C'è anche il (piccolo) Panevin dei bambini, perché la piromania è meglio insegnarla in giovane età.

Cerimonia di accensione con le torce, come tradizione comanda, e nel giro pochi minuti le fascine elevano verso il cielo il tributo agli antichi dei di questi luoghi (lo scontro tra la cristiana Epifania e i vecchi riti agresti ha portato al compromesso di bruciare quella povera vecchia della Befana, vedi te...). Ci mettiamo anche la benedizione del prete, perché non è ancora chiaro se esista un Paradiso per i Celti, e nel dubbio è meglio tenersi buono anche Gesù.
Il fuoco brucia il passato e tutti osservano speranzosi le faville, presagio di tempi migliori o peggiori a seconda della direzione che prendono. Non avendo mai capito come interpretarle (chiedi a 10 persone e tutte ti dicono cose diverse), mi godo il bombardamento di calore e vengo naturalmente spinto verso i tavolacci delle cibarie. Peraltro, durante il rogo vengono recitati i proverbi sulle faville e capisco che è una materia in cui regna la confusione assoluta.

Prima di elencare le pietanze, faccio presente che bisogna prima superare lo sbarramento di anziani che stazionano là da ore per accaparrarsi tutto (tutto!). Prima riempiono le tasche, poi passano agli amici, poi s'infilano in bocca quello che avanza: tre porchi, due gomitate, un taglio di fila all'italiana (perché si forma la celeberrima “fila a imbuto”, specialità della nostra Penisola, ove vige la legge del più sfacciato) e qualche ramanzina sulla mancanza d'educazione dei giovani d'oggi. Alla fine si arriva davanti alle agognate pietanze:
  • Brulè bianco e nero: obbligatorio per sopportare un terreno umido e nebbioso da palude bonificata. C'è anche la cioccolata calda, perché sembra strano ma, invisibili sotto il livello della nebbia, ci sono anche dei bambini.
  • Pinza: si mangia sempre in attesa di altro, e siccome i tempi son lunghi, la pinza va via che è un piacere.
  • Pasta e fagioli. Si mette alla prova la resistenza degli affamati, giacché i vecchi in attesa riescono a reggere 5-6 piatti e ancora ne chiedono. Fanno anche bene, pasta e fagioli su livelli alti.
  • Piedini di porco. Lessati con sapienza, sono uno dei cibi poveri per eccellenza e speriamo che non li scopra qualche chef, sennò ce li troviamo come raffinatezza ai banchetti di matrimonio. E invece proprio qui, al Panevin, devono stare queste ossa ricoperte di pelle, setole, muscoli e tessuto connettivo, con la sporadica presenza di brandelli di carne! Mezz'ora di attesa prima di convincere la signora davanti a me che 3 piatti di piedini le potevano anche bastare, poi posso ingozzarmi.
  • Musetto, che in Italia chiamano “cotechino”. Qui parte la rissa: è chiaro che ogni anziano del circondario ha fin'ora scherzato, ma adesso è il momento di scatenarsi. Calca da primo giorno di saldi, piedi calpestati e file a imbuto che s'allargano, si restringono e si deformano come una marea: volano parole grosse (“Sta tento moro”, “De chi situ ti?”, “Va in mona de to mare”), si rischia l'incidente diplomatico. Meglio una ritirata dignitosa, nell'attesa che uno dei miei scagnozzi infiltrati nell'organizzazione porti fuori qualche avanzo.

È tardi ma non tardissimo, il cibo è finito e la gente abbandona la pugna. Il Panevin sta finendo di bruciare, il passato è in cenere e il futuro è incerto (almeno 3 proverbi garantiscono polenta abbondante, ma altrettanti sostengono che staremo stretti con le salsicce) e allora mi godo il presente: l'ennesimo brulé, il caldo buono della pira, musetti unti e le capriole della nebbia.

2 commenti:

Alessandro Fort ha detto...

Piacevolissima descrizione, si sente anche il fumo che ci circonda, il sapore del vin brulè e quello della pinza, che non apprezzo moltissimo, ma non ditelo a nessuno.

Giampiero Novello ha detto...

Nessuno lo saprà!